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I MILLENIALS: CAMPIONI DI JOB HOPPING

Specialità olimpica? No, il job hopping” indica solo l’attitudine a passare rapidamente da un lavoro ad un altro. È un fenomeno “di tendenza” nato negli Stati Uniti e sbarcato anche in Europa. Una pratica in rapida diffusione tra i millennials, i nati tra i primi anni ’80 e la metà degli anni ’90, che non sono poi così attaccati all’idea di stabilità lavorativa. L’arroganza e l’ambizione che li guida nell’adozione di questa strategia, rende difficile per loro impegnarsi e “innamorarsi” di un ruolo lavorativo, in una relazione di dipendenza. Sono mossi dalla profonda convinzione che questa pratica possa addirittura rivelarsi un trampolino di lancio per la loro carriera.

“Saltare” da un’azienda all’altra non è un fenomeno legato solo a motivazioni economiche. La sua tendenza alla crescita testimonia il fatto che il fenomeno è assai più complesso, incoraggiato peraltro dall’illusione che, se preso nel verso giusto, potrebbe finanche avere un risvolto positivo.

Il job hopping viene inculcato nei giovani come fosse una pratica innovativa per una rapida crescita professionale. Il cambiamento come fattore positivo, che aiuta ad imparare, ad essere sempre pronti a nuove sfide e nuovi scenari, ad accrescere la spendibilità delle proprie competenze nel mondo del lavoro.

Questo è quello che gli è stato raccontato!

Gli è stato detto che per essere competitivi occorre essere più flessibili dei lavoratori del passato, e che in nessun modo un curriculum scarno viene positivamente valutato da un’azienda in fase di recruiting.

Ai millennials piace imparare rapidamente, bruciando le tappe. Sono interessati a provare diversi lavori prima di concentrarsi sulla carriera in un dato settore. Per i millennials, i fattori che rendono un’azienda la migliore dove lavorare, non sono i benefits alla Google maniera, tipo gli spazi ricreativi e i centri fitness, né la prospettiva di un aumento di stipendio, quanto piuttosto la possibilità di crescere e imparare rapidamente.

In un simile contesto, è evidente che la metafora della scala a rappresentare la carriera lavorativa, e ampiamente superata. La scala è sostituita dalla “jungle gym”, l’area dei parchi giochi dove i bambini si divertono ad arrampicarsi, lanciarsi con le corde e passare attraverso tunnel colorati. Così il lavoro può portare a salire e scendere, ad imboccare una direzione, per poi, poco dopo, sceglierne un’altra.

Diciamolo pure: il job hopping ha perso la sua connotazione negativa e sta rimodellando il mercato del lavoro. Parzialmente individuabile come prodotto di un contesto socio economico disorientante, il job hopping non è esente da svantaggi. Il principale è l’affidabilità del lavoratore, che si misura nel tempo speso nell’azienda e per l’azienda. Un curriculum movimentato evoca molte domande: “Sarà che non è bravo nel suo lavoro?”, “Sarà che è un quitter?”, “Sarà che si annoia facilmente e non riesce ad avere una visione?” Certo è che un curriculum pieno di esperienze lavorative ravvicinate rappresenta un campanello d’allarme per le imprese, che ritengono utile investire non su chi va, ma su chi resta.

Di fatto, il job hopping può rivelarsi una pura illusione. Per acquisire una degna professionalità in un settore specifico occorre rimanere ancorati ad una soluzione lavorativa almeno sino al completamento dei cicli di crescita che restituiscono un feedback dell’effettivo valore professionale.

Saltare da un lavoro all’altro porta solo ad essere “esperti di tutto e professionisti di niente”. Perciò i salti lasciamoli agli atleti!

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